Lo zen e l’arte del dribbling

Appunti per una filosofia del calcio (1990)

Introduzione

La passione degli italiani per il calcio è esagerata, lo dicono tutti, persino i più assatanati giornalisti sportivi, quelli innamorati del ciuffo di Zenga, devoti a Sacchi, pronti ad accendere ceri a Maldini.

Ma questa passione smodata ha ragioni  profonde. Il fatto è che noi italiani, per via di una gloriosa tradizione, non amiamo leggere né tantomeno studiare. Di conseguenza, usiamo il calcio come una sorta di bignami etico, capace di ricordarci i nostri valori più alti. Ditelo alle donne: l’isteria calciofila non nasce solo dal fanciullone che abita in noi, è anche un modo per ripassare i capisaldi della nostra millenaria cultura.

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L’etica del pareggio

Il calcio è superiore agli altri sport dal punto di vista etico, perchè prevede, e in certi casi incentiva, la possibilità del pareggio.

Quasi tutti gli altri sport sono eticamente più fascisti e impongono l’obbligo che fu delle truppe di Mussolini: bisogna vincere, e vinceremo.  L’avversario viene visto come un nemico da distruggere, e il mondo è diviso tra vincenti e perdenti.

Poi arriva la morale catto-comunista del calcio. Lo stratega del calcio è sornione, diplomatico, possibilista, aperto al dialogo. Sa che spesso l’avversario non è un nemico, e può essere più conveniente non forzare troppo e orientare la partita verso la placida collaborazione dello zero a zero.

Lo spettacolo ne soffre, ma la salute dell’anima ne guadagna enormemente. Negli anni dei Rambi e degli yuppies, il calcio è l’unico discorso di massa a portare avanti un’antica, semplice, nobilissima verità: nella vita non è obbligatorio vincere o perdere. Si può anche andare avanti a zero a zero.

La possibilità del pareggio inserisce nel calcio termini che negli altri sport sono sconosciuti: collaborazione, diplomazia, savoir-faire, non belligeranza.

Il giovane stopper della squadra di provincia impara che a volte, anziché piantare sei tacchetti nel polpaccio del centravanti, conviene fargli capire che possono stare calmi tutti e due, finire in pareggio, e alla fine scambiarsi la maglietta.

È così che gli stopper di provincia si preparano alla vita democratica. Del resto, la maggior parte dei nostri politici è simile a quei capitani che si fronteggiano fieramente a centrocampo, ma si sono già messi d’accordo nello spogliatoio.

(nota, quando è stato scritto questo pezzo non c’era la regola dei 3 punti)

Elogio della melina

Anni sessanta, quelli erano tempi. Gli altri, quei giovanottoni tedeschi, inglesi, svedesi, erano già allevati con gli omogeneizzati. Alti, slanciati, forti, persino biondi. I nostri, invece, erano piccoli, pelosi, con facce da pastasciutta e da dopoguerra. Con la Germania stavamo 85 minuti a barricarci nel fango della nostra area, e 5 minuti all’attacco.

Risultato: uno a zero per noi.

Volete mettere la soddisfazione? Adesso vinciamo la coppa dei campioni con la squadra migliore del mondo, tutta zona e pressing. È un risultato poco entusiasmante, perché è prevedibile. Come quando ci dicono che il Giappone è la nazione più ricca. Complimenti, ma ce lo aspettavamo, non fanno altro che lavorare. Nessuno pensava che il Tanganica avesse un PIL più alto. Non c’è eroismo. Semplicemente, in Giappone investono meglio, pianificano meglio, lavorano meglio. È strategia aziendale.

La stessa che negli anni ottanta, grazie al Milan di Sacchi, ha portato nel calcio una ventata di efficienza manageriale: “pressing”, “zona”, “calcio totale”, “vincere tutto”, “il grande slam”.

Dall’altra parte, invece, ci stanno splendidi termini come “catenaccio”, “contropiede”, “barricate”, “melina”, voci di un’era in cui la pastasciutta furba fregava l’omogeneizzato tonto.

Quella era l’essenza del calcio italiano: i gigioni che scendevano in campo dicendo “tutti all’attacco, vinceremo cinque a zero” tornavano a casa scornati. Non è solo una questione di strategia calcistica, è un problema di concezione del mondo.

La filosofia del catenaccio è questa. “La vita è dura, noi facciamo pena, perciò poche pugnette, tutti in difesa, buttare la palla in tribuna e mi raccomando: primo non prenderle”.

Volete mettere la saggezza? Dietro ci sono dentro 4.000 anni di cultura occidentale, l’Ecclesiaste, Diogene, Schopenhauer, Leopardi: un umile pessimismo che affronta la vita sapendo che il Destino è carogna.

La filosofia del pressing è invece questa: “Siamo più forti, più belli e più bravi. Giochiamo splendide geometrie, vinciamo, ci divertiamo, diamo spettacolo e alla fine ci abbiamo anche guadagnato dei soldi”.

Ma così non c’è più epica! È la cultura del varietà del sabato: luci, culi, sorrisi e paillettes, tutto funziona, zero conflitti, e il Destino diventa un presentatore biondo che dice “Ciao amici”. È una filosofia falsa e diseducativa, dà un’idea dell’esistenza come impresa troppo semplice.

Infatti, tutti quelli che negli anni Ottanta hanno cercato di applicare questa filosofia nella vita di ogni giorno, stanno tornando a casa scornati come i gigioni teutonici che si buttavano all’attacco contro il Milan di Nereo Rocco e i suoi 9 giocatori chiusi a chiave dentro la propria area.

Per fortuna le basi della nostra civiltà non sono del tutto minate. Lo si è visto ai mondiali del ’90. Vicini non ha dato retta a Berlusconi e ha badato sopratutto a registrare la difesa. Poi, ringraziando la sorte, ha trovato là davanti una faccia da pastasciutta che voleva prendersi la sua rivincita contro tutti gli omogeneizzati del mondo.

Morale: con Zenga in porta e Schillaci in attacco, la nostra nazionale era a metà strada tra passato e futuro: avevamo in porta un aitante presentatore televisivo, e in attacco un ex gommista, piccolo, peloso e nero di rabbia. Due culture fuse nella stessa squadra.

Farei però notare che, se non siamo andati in finale, è stato per colpa del presentatore, mica del gommista.

Davide, Golia e lo stinco del terzino

Una delle leggende più belle dell’umanità è quella di Davide e Golia, perché insegna che il graciletto può sconfiggere il gigante.  E’ una grande lezione morale perché suggerisce ai giganti di non esagerare (“sai mai che quel piccoletto non sia un Davide”) e perché incoraggia i piccoletti a darci dentro.

Il calcio è lo sport che meglio diffonde questa leggenda, perché salta sempre fuori un Verona che le suona al Milan o un Camerun che affonda l’Argentina. Provateci nel tennis, nel basket, o nella vita vera: Davide le prende sempre. Il calcio no, è l’unico luogo dove qualche volta le busca anche Golia!

Tra l’altro, in versione calcistica la leggenda è anche più etica che nella versione biblica dove Davide e Golia è ancora una lotta tra giganti: uno giganteggia in forza ma l’altro giganteggia in furbizia. Un individuo di corporatura e intelligenza normali le prende da entrambi.

Nel calcio invece no. Si può battere il gigante anche senza particolari qualità. Basta che capiti la giornata giusta, che il Camerun sia in forma e l’Argentina no, che il Milan colpisca sei traverse e il terzino del Verona, inciampandosi, colpisca la palla di stinco e la faccia rotolare in goal.

“Verona-Milan” e “Camerun-Argentina” sono metafore sublimi: il piccolo può battere il grosso, e senza neanche essere più furbo. E’ sufficiente aspettare con pazienza la giornata giusta. La Giustizia Universale è lo stinco di un terzino che si inciampa.

Goal, sesso e Nirvana

Il calcio è il più erotico degli sport perché prevede un equilibrato rapporto tra il tempo dell’atto e il numero dei culmini. In una partita di novanta minuti si realizzano in media da zero a tre goal, sudati e faticati.

Da zero a tre: secondo il rapporto Kinsey è anche il numero di orgasmi che si verificano in un incontro sessuale medio.

La coincidenza numerica non è un caso, perché il goal è la più perfetta metafora dell’orgasmo che sia mai stata inventata. Il goal è un apice, il momento in cui le energie accumulate si liberano, i visi diventano estatici e per un attimo il tempo svanisce, annullato nella gioia della soddisfazione suprema.

Un mistico direbbe che nell’attimo del goal il calciatore supera il dualismo, esce dal divenire imperfetto del tempo, si unisce per un istante alla perfezione dell’essere e si fonde con la bellezza del creato. In pratica, il goal è un Nirvana temporaneo, un Paradiso di cinque secondi.

Esattamente come l’orgasmo.

Gli italiani, focosi ma cattolicamente pieni di sensi di colpa, hanno trovato nel calcio una sublimazione del gesto sessuale che ha garantito a lungo l’equilibrio erotico della nazione. Lo aveva capito solo Rita Pavone che col verso “la domenica mi lasci sempre sola” lanciava l’evidente grido di una donna tradita sessualmente.

Il confronto con il basket conferma la teoria. Il basket è 100 volte più spettacolare del calcio, ha meno successo solo perché non permette identificazione sessuale (se non forse ai conigli o ai ricci). Il basket è la metafora dell’efficienza produttiva che non ha nessun culmine ma produce in continuazione risultati (il canestro). Ovvio che piaccia tanto agli americani. È lo sport di una società antierotica che corre, produce e non pensa al sesso. Il calcio, invece, è lo sport di una civiltà fatta di pomeriggi assolati e di ossessivi,  indolenti pensieri erotici.

Del resto chiunque abbia giocato a calcio ha sognato almeno una volta di tirare in porta e, mentre la palla gonfia la rete, trovarsi nel momento dell’orgasmo. Non si può sostenere che sia un caso.

Da Briegel a Bruno Conti

Per fare qualsiasi sport occorrono determinate caratteristiche fisiche. Nel calcio invece non c’è uno standard fisico da rispettare. Serve Briegel, un decatleta alto uno e novanta, ma anche Bruno Conti, un nanerottolo storto, furbo e fintaiolo. Serve un milordino come Rivera, che entra con la messa in piega, si piazza a metà campo a ragionare e a fine carriera diventa deputato. Però servono anche Furino o Benetti, rozzi mediani senza il dono della parola che corrono tutta la partita rifilando calci a qualsiasi cosa gli passi di fianco.

Servono difensori come Tassotti, capaci di 90 minuti di concentrazione assoluta, e servono Baggi distratti e fantasiosi, che passano 80 minuti a pregare Budda, e poi inventano sette dribbling e un goal in semirovesciata di tacco.

Grintosi, damerini, acrobati, macellai, strateghi, furbacchioni, giocolieri, umili, virtuosi, altruisti, alti, bassi, migherlini, palestrati: nel calcio c’è posto per tutti, nel calcio servono tutti.

Il calcio è il meno razzista degli sport, perché non fissa i parametri necessari alla partecipazione. Il calcio ci ricorda il valore della differenza e ci insegna che tutti possiamo essere utili.

Del resto, il più grande campione degli ultimi anni è un tombolotto piccolo, grasso e vizioso. Pensiamoci: il semplice fatto che sia esistito un Maradona lascia integra la speranza a tutti i ragazzini golosi che i compagni chiamano ” Ciccio”.

L’eterno ritorno: calcio e politica

Nel calcio tutto ritorna sempre uguale. In settembre comincia il campionato: chi in estate aveva dichiarato di essere fortissimo (cioè tutti) prende più batoste del previsto, qualcuno licenzia l’allenatore e tutti annunciano l’acquisto del nuovo Pelè al mercato di riparazione.

Quando questo mercato chiude, chi aveva annunciato Pelè presenta ai tifosi qualche vecchio ronzino “vero professionista di grande esperienza”.

Poi cominciano le coppe e qualcuno si domanda acutamente se l’impegno in coppa non finisca per nuocere all’impegno in campionato. Fervono grandi discussioni che permettono di arrivare alla fine del girone di andata: ora c’è la squadra campione d’inverno e si pubblicano quelle bellissime statistiche che spiegano quante volte i campioni d’inverno hanno poi vinto lo scudetto.

In febbraio, che è un mese un po’ morto, si fa sempre una intensa polemica sulle capacità degli arbitri e sulla necessità di aumentarli, farne dei professionisti o inserire una moviola in campo.

Con la primavera i giovani imbottiti di ormoni si menano di santa ragione, così si può discutere sulla violenza negli stadi. Nello stesso tempo le coppe vanno avanti e noi tutti ci rendiamo conto di quanto l’impegno in coppa nuoccia in campionato.

E intanto il campionato volge al termine: chi è in testa dichiara “non è ancora detto”, chi insegue giura “lotteremo fino all’ultimo”. In coda, le squadre strappano punti con le unghie, tirano la palla in tribuna e accusano le rivali di fare il biscotto e combinare le partite.

Poi il campionato finisce, ma polemiche e festeggiamenti si trascinano per una decina di giorni, così ci si attacca a qualche competizione internazionale e si arriva all’apertura del calciomercato. Tutti arrivano a un passo dall’acquisto del nuovo Pelè, purtroppo non ci riesce nessuno ma tutti dichiarano di essere molto soddisfatti di una campagna acquisti che ha colmato le lacune della squadra.

Poi in settembre cominciano le partite, dopo le prime sconfitte si cambia l’allenatore e si annunciano rinforzi per il mercatino di riparazione. E siamo daccapo.

Nel calcio sappiamo che alla fine tutto tornerà, uguale all’anno prima e all’anno dopo. Questo atteggiamento ci procura molta serenità e molta sicurezza, tant’è vero che lo applichiamo anche alla vita sociale e politica. A noi italiani non interessa risolvere i problemi, ci basta poterli discutere in eterno. Questo facciamo da 40 anni, in politica e nel calcio.

I mali italiani che da 40 anni discutiamo inutilmente sono come le polemiche di febbraio sugli arbitri o quelle sull’impegno di coppa che nuoce in campionato: argomenti di conversazione che tornano sempre uguali e che danno un caldo senso di continuità.

E se nel chiacchiericcio generale tutto dovesse andare a rotoli? Non c’è problema. Nel nostro paese, in qualunque momento storico, c’è sempre un signore calvo che dice frasi ad affetto ed è pronto a prendere in mano la situazione, dare una bella regolata alla squadra e costringere il paese a gridare in coro “ha ragione il mister”. Da Mussolini a Craxi, da Bernardini a Arrigo Sacchi.

Forza Italia.

PS. Del 2009. Giuro che le ultime righe, come tutto il resto, sono stato scritte nel 1990, quando Forza Italia era solo un urlo da stadio.

1 commento su “Lo zen e l’arte del dribbling”

  1. aggiungo, inoltre, che di signori calvi che gridano non ve ne sono più, e non a causa di una miracolosa cura delle calvizie. Il paradosso: Cesare Ragazzi se la passa male, ha portati i libri contabili in tribunali, ma quello di cui sopra, quello che adesso grida, sta volta non ha offerta ad un’altra storica azienda italiana di traghettarla fuori da una situazione critica.

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