Lezione 6 – Io sono l’ostacolo

Un senso a questa storia

A questo punto, qualcuno potrebbe pensare che per costruire una buona storia basti mettere il personaggio in un mare di guai. Non è così, anzi così si rischia l’iper-storia: una sequela di conflitti inutili e noiosi, senza alcuna necessità. E quindi ecco la domanda: cosa rende i conflitti necessari? Cosa invece li rende inutili?

Provate a pensare la risposta. Scrivetela su un post-it.  La mia è semplice: senso. Le buone storie hanno a che fare col senso. Pensateci, la nostra vita trabocca di storie, basta aprire un giornale, attaccare bottone nella sala d’attesa di un dottore, passare un pomeriggio al bar: sentiamo decine di storie. Perché perdere tempo a leggerne o guardarne una fasulla?

Perché le narrazioni sono portatrici di senso.
Suggeriscono un significato che, nella vita quotidiana, spesso ci sfugge, o non c’è, chissà. Certo, nelle narrazioni il senso non è enunciato in modo esplicito: è suggerito, indicato, fatto balenare. Questo perché il senso delle narrazioni non è una visione del mondo “compiuta” come quella delle religioni, della politica o della scienza. È un senso più problematico, più impalpabile, più indicibile. Somiglia più a una domanda che a una risposta, più a una contraddizione da illuminare che a una verità da dire. È un dubbio, una qualità dello sguardo, uno stile, un modo di respirare.

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Non sto facendo il poeta, cerco solo di dimenticare il nefasto messaggio delle antologie (almeno quelle dei miei tempi) che pretendevano di spiegare le opere mostrandone “il significato”. ARGGGHH! L’essenza delle buone storie sta proprio nella capacità di trasmettere un significato che non si può tradurre in un messaggio logico definitivo. Le narrazioni, come tutta l’arte, sono da secoli la parte zen di un Occidente che ha puntato sul razionalismo. Sono l’oasi nella pretesa di capire tutto, esprimono quella parte di realtà che la nostra civiltà non poteva esprimere nei milioni di teorie logiche che ha prodotto. Le narrazioni trasmettono un senso non definibile e non definitivo. E questo avviene anche (e spesso soprattutto) per mezzo della trama. La trama è un’azione e un’azione sta lì, esemplare e misteriosa, col suo carico di significati. Ci interroga. Ci pone domande. Insinua visioni. Non offre risposte.

Nelle migliori narrazioni, la trama è portatrice di un senso intraducibile: qualcosa che è stato espresso con una narrazione perché non c’era un altro modo per dirlo. Se Dostoesvky avesse potuto riassumere le sue migliaia di pagine in una teoria di 20 cartelle, sarebbe stato crudele a non farlo! Se ha scritto migliaia di pagine di narrativa è perché quello era l’unico modo di esprimere quel che aveva addosso: dubbi, domande, lacerazioni, visioni, speranze, emozioni, fardelli, colpe, sogni, strazi, illusioni, grida. Di questo trattano le narrazioni, del mistero di stare al mondo, e lo fanno nel modo più aperto: cioè con una storia. Una fila di fatti che, se ben scelti, paiono sprigionare o promettere un barlume di senso, non definitivo, che si rivela solo con la complicità attiva del fruitore, e quindi può variare infinite volte.

Tutto questo papiello per dire che i conflitti e gli ostacoli sono tremendamente importanti per tutti i motivi “tecnici” che abbiamo detto, però non basta mettere i personaggi in un mare di guai per avere una narrazione. I guai dei personaggi, e la loro soluzione, devono avere la capacità di alludere – o illudere – a un senso.

In questi casi c’è sempre qualcuno che chiede “Sì, ma 007? Wilbur Smith? Dov’è il senso?”. La risposta di solito è che nelle narrazioni seriali il senso non c’è perché è puro intrattenimento, sono trame che servono solo allo svago, eccetera. Invece il senso di quelle narrazioni c’è, ed è tragico. Almeno secondo me, il patto che l’intrattenimento di evasione offre allo spettatore suona così: “ehi amico, la vita non ha senso, tu lo sai, io lo so, non perdiamo tempo in storie che ne cerchino uno. Ti offro qualcosa di più sicuro: ti distraggo qualche ora dalla tua ansia del nulla, intanto passi un po’ di tempo, poi troverai qualche altra distrazione”.

È una opinione personale ma secondo me l’intrattenimento leggero che domina la nostra epoca non ha nulla di leggero, anzi si fonda su un pessimismo apocalittico: “la vita non ha senso e non vale la pena cercarlo, meglio distrarsi un pochino”. Leopardi al confronto era un guru dell’ottimismo.

Ma bando alle ciance, torniamo alla pratica.  La trama è fondamentale per creare l’allusione (o l’illusione) del senso. Questo avviene persino nelle narrazioni più filosofiche, come ad esempio I fratelli Karamazov, che affronta un tema tipo: “Che ne sarà del mondo dopo la morte di Dio?”

Riassumiamo brutalmente la storia che – evidentemente non a caso – è quella dell’omicidio di un padre. I sospettati sono i suoi stessi figli. Un militare materialista, un intellettuale ateo e razionalista, un fervente e innocente religioso (è il meno sospettato ma a tratti viene il dubbio che potrebbe essere stato anche lui). Insomma, c’è un padre che muore e tre figli sospettati che rappresentano le tre grandi “possibilità dell’esistenza” dell’epoca. E chi è il colpevole alla fine? Nessuno dei tre. A commettere il parricidio è stato il servo con problemi mentali, che non aveva nemmeno un movente. Semplicemente, quando ha sentito l’intellettuale dire più volte che se non c’è Dio tutto è permesso, ha creduto che gli stesse chiedendo di uccidere il padre, e l’ha fatto.

Questa svolta della trama emana un senso potente, evidente e oscuro al tempo stesso. Un significato complesso, fatto di molte facce, che è impossibile da tradurre in un “messaggio” compiuto. Lo si può solo contemplare, o interrogare, magari trovando ogni volta risposte diverse.

Questa lettura dei Karamazov (superficiale e fatta a memoria, non lo leggo da 15 anni) si presta certo a mille obiezioni. Ma non voglio fare critica letteraria, solo martellare un concetto pratico: con la trama dite molto di quel che avete da dire. È coi fatti che dovete creare un senso (poi, certo, c’è anche lo stile, ma quella è la parte B del corso).

Ho scelto come esempio i Karamazov perché è un romanzo denso di discorsi filosofici, tra i più alti nella storia della letteratura: eppure persino lì, alla fine è la pura sequenza dei fatti che si incarica di trasmettere il senso della vicenda. Non a caso l’autore filosofeggia su tutto ma sul fatto che l’assassino è il servo, non dice una parola. Anzi, sembra quasi che tutto il filosofare precedente serva a preparare il lettore, per poi lasciarlo nudo al confronto col semplice “fatto” finale e alla sua enigmatica capacità di sprigionare senso.

Scusate la parentesi elevata, ma mi sembrava utile ricordare che i concetti che stiamo studiando non sono solo trucchetti che servono a tener desta l’attenzione e creare storie “che funzionano” o “si vendono”. Possono essere usati soltanto così, ma non è detto. Volontà del personaggio, conflitti, ostacoli, climax e via dicendo sono presenti in Shakespeare come nell’ultima soap. Questi concetti rappresentano il volante, il cambio e la benzina che ci permettono di guidare la macchina. Dove andiamo dipende da noi. Dalle nostre capacità, certo, ma un pochino anche dalla nostra volontà.

Ora torniamo sul pratico. Stavamo parlando di come costruire il percorso di ostacoli & conflitti di cui abbiamo – spero – dimostrato l’importanza nella lezione 2. Abbiamo detto che è importante pianificare con cura questo percorso perché il senso della storia sarà affidato ai fatti più che ai discorsi. Dobbiamo quindi concentrare tutta la nostra energia nell’inventare una “trama che parli”, cioè capace di allineare fatti che esprimano qualcosa. Per farlo possiamo seguire vari criteri che, come sempre, sono intersecati fra loro e quindi, nell’atto pratico della scrittura, vanno pensati tutti insieme. Nell’elencarli devo dividerli, ma è solo perché si può spiegare soltanto una cosa per volta.

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OK, SONO SEMPRE IO

Il corso è un regalo, sta qua dal 2009 e non l’ho mai usato per promuovere le mie cose. il-giro-della-verita-fabio-bonifacci
Faccio eccezione per questo romanzo a cui tengo in modo particolare.

Perché è il mio primo vero romanzo, perché sognavo di farlo da quando ero bambino, perché secondo me è  molto bello.

Puoi leggerlo perché ti piace lo stile con cui è scritto il sito.
Per capire se e come le regole del corso funzionano nella pratica di una narrazione. 
Perché frequenti il sito da anni e se ti dico che è bello, ti fidi.
Perché non ti fidi, e vuoi scrivere una stroncatura che sarà pubblicata qua.
Perché il romanzo sinora è piaciuto molto a chi lo ha letto. 

Oppure puoi non leggerlo, io capirò: la vita è breve e i libri sono tanti. Però un po’ mi dispiace.

Qua puoi saperne di più. E grazie per l’attenzione.

La direzione della storia

Ostacoli o conflitti vanno pensati tenendo presente la partenza e la destinazione finale della storia, che riassumiamo.

PARTENZA. C’è un personaggio che vuole qualcosa, e questa volontà ha a che fare in qualche modo con la sua area di pericolo. Avviene un incidente iniziale che avvia la storia e costringe il personaggio a muoversi per perseguire il suo obiettivo (a volte per definirlo se non l’aveva fatto prima).

DESTINAZIONE. La meta a cui siamo diretti è un cambiamento del personaggio perché una buona storia racconta un’esperienza decisiva di un essere umano, e le esperienze decisive sono quelle che ci cambiano. Se dovete raccontare la vostra vita a qualcuno, scegliete gli episodi che vi hanno costretto a cambiare. Sono quelli i momenti in cui la vita acquista significato. I cambiamenti sono i culmini – spesso anche dolorosi – dell’esistenza. E quando scrivete una storia dovete raccontare i culmini di una vita, non il tran tran quotidiano.

Come ha scritto R.S. Crane (citato dal romanziere David Lodge) “La trama è un processo di cambiamento portato a termine”. È così dai tempi della tragedia greca. Perché, come dice Billy Wilder, “La gente apprezza un personaggio che sta in piedi, che ha una sorta di vita propria. Specie se quel personaggio cambia; la cosa importante è che nel corso della storia diventi una persona diversa”.

Il problema è che cambiare è difficile. Noi tutti ci proviamo di continuo, quasi sempre senza riuscirci. Eppure basta parlare con qualche anziano per sentirsi raccontare che nella vita è cambiato, spesso più di una volta. Quindi come avviene questo mitologico “cambiamento” che nessuno riesce a fare, eppure tutti fanno? Semplicemente, è la vita che, in bene o in male, ogni tanto ti costringe a cambiare. Coi fatti, con quello che ti succede, con le esperienze concrete che ti pone davanti. Questo accade nella realtà. E questo accade nelle storie.

Ostacoli & Conflitti sono il percorso che conduce la storia da A a B. Dall’incidente iniziale che mette in moto il desiderio del personaggio (A) al suo cambiamento finale (B). Dunque Ostacoli e Conflitti non sono un orpello, non sono una tecnica per tener desta l’attenzione: sono la simulazione di un processo che avviene nella realtà.

Ora riassumiamo il percorso in uno schema (con tutti i limiti e le semplificazioni del caso).

  • C’è un personaggio che ha certe caratteristiche, tra cui una determinata “area di pericolo” (che conosce o non conosce, più spesso non la conosce).
  • Accade qualcosa che crea un desiderio nel personaggio (o che lo stimola se già era presente). Il personaggio “deve” mettersi in moto per ottenere ciò che vuole.
  • Incontra un ostacolo, reagisce e in qualche modo lo supera.
  • Ma incontra un secondo ostacolo (a volte generato almeno in parte dalla sua reazione al primo ostacolo). In qualche modo supera anche questo.
  • Si ripete N volte lo schema “ostacolo-reazione”. Ogni reazione del personaggio lo conduce dinnanzi ad un nuovo ostacolo. Gli ostacoli sono sempre più pericolosi (si intende “pericolosi per lui”, cioè rispetto alla sua area di pericolo).
  • Si giunge ad un culmine in cui il personaggio, per ottenere ciò che vuole, si trova di fronte un ostacolo così grande che per superarlo è costretto a confrontarsi davvero con la sua area di pericolo e, in sostanza, a cambiare. O comunque ad imparare qualcosa di significativo ed essenziale. Fine.

Se cercate il più sintetico schema-bonsai per costruire una storia, è questo. Certo, uno schema così piccolo lascia fuori molte eccezioni, però la gran parte delle storie scritte, filmate o recitate a teatro, lo seguono. E, come vedremo, molte storie che sembrano avere uno schema diverso, in realtà usano questo, solo travestendolo meglio.

A qualcuno tutto ciò potrebbe sembrare artificioso. In realtà si tratta di un percorso molto naturale, come forse mi è riuscito di spiegare decentemente nella risposta data via mail a uno di voi. La pubblico perché mi pare utile per tutti. Lui si chiama Karma (non è un nome d’arte) e ha scritto quanto segue, appena un po’ riassunto:

“Io sono alla lezione 3. Non riesco bene ad utilizzare la premiata ditta Ostacoli & Conflitti con personaggi che hanno delle problematiche rilevanti, ad esempio se sono mitomani, cleptomani, se si drogano, se la loro timidezza congenita li preserva dal fare ciò che vorrebbero fare, per esempio esibirsi in pubblico (il desiderio in questo caso esiste ma è in un perenne stato di metastasi, perché il suo ostacolo non è esterno ma interno al personaggio).

Quindi il superamento dell’ostacolo è possibile in questi casi solo se c’è una trasformazione radicale del personaggio, e tranne nelle favole questo sembra poco realistico, o perlomeno molto difficile, e insomma io faccio fatica ad applicare lo schema Ostacoli & Conflitti con molti personaggi problematici che mi vengono in mente. Dici che sono io che ho un reale problema congenito nell’inventare storie?”

Risposta

“Che l’ostacolo principale del personaggio sia interno va benissimo: è giusto, anzi normale. Però nella vita quasi nessuno risolve i propri problemi interiori affrontandoli direttamente. L’interiorità sfugge, o noi sfuggiamo ad essa: in ogni caso, non sappiamo affrontarla in modo diretto.

Quel che accade nella realtà – e che le narrazioni imitano – è un percorso di questo tipo. Qualcuno ha un problema interiore, lo sa o non lo sa ma non importa: in entrambi i casi non farà nulla per risolverlo. Però prima o poi il problema interiore si riverbera nella sua vita reale, dove produce ostacoli concreti e oggettivi.  

Per fare un esempio banale: un iper-timido potrà trovarsi ad essere sottovalutato sul lavoro e incompreso dai colleghi perché non esprime abbastanza quel che pensa, quel che prova e quel che sa.  Per anni la cosa rimane a livello di problema interiore poi un giorno, magari per la crisi economica, l’azienda deve licenziare qualcuno: scelgono lui perché – causa timidezza – sembra meno in gamba e meno collaborativo di quel che è. A questo punto il personaggio è costretto a mettersi in moto: non vuole cambiare se stesso né affrontare i propri nodi non risolti, vuole soltanto risolvere un problema pratico: trovare un altro lavoro.

Nella realtà può essere che ci riesca restando com’era: nel qual caso siamo contenti per lui ma non è una storia interessante da raccontare.

Oppure può accadere che, cercando di risolvere il problema pratico, debba affrontare una serie di Ostacoli & Conflitti che lo costringono a cambiare: cioè a superare il suo problema interiore (o a peggiorarlo: anche questo è un cambiamento). A questo punto la storia si fa interessante.

In altre parole: questa faccenda degli ostacoli oggettivi che ci costringono ad affrontare i nostri problemi interiori non è un trucco narrativo! È così che funziona nella realtà!

Il problema interiore prima o poi finisce per concretizzarsi in un problema della vita quotidiana. Quel problema concreto spinge il personaggio a muoversi, affrontando ostacoli che in certi casi lo costringono a confrontarsi col problema interiore, che aveva originato il tutto. E quella è potenzialmente una storia interessante da raccontare”.

Insomma, il meccanismo è quanto di meno artificioso esista. È la vita che va così.

La prima regola da tener presente è dunque che ogni ostacolo e ogni conflitto sono le tappe di un percorso che va da A (area di pericolo e volontà del personaggio) a B (cambiamento del personaggio). Avere presente il punto di partenza e quello di arrivo è molto utile. Ovviamente, può darsi che il B non lo sappiate con precisione, però se avete definito bene l’area di pericolo del personaggio, sapete di cosa può trattare, a che famiglia appartiene il cambiamento finale del personaggio.

Nell’esempio del “presunto rocker” quando inizio a scrivere non so ovviamente come finisce la storia. Però so che la sua area di pericolo ha a che fare con un eccessivo desiderio di avere una vita speciale. Questo mi fa sospettare che la sua area di pericolo abbia a che fare con la paura di essere banale: troppo normale. So quindi che la sua crescita avrà a che fare con questi temi. Quello è il B a cui tendo. Ho una bussola, vaga, ma ce l’ho!

Grazie a questa bussola, mi è più facile stabilire se un dato evento serve alla storia o no. È utile che il “presunto rocker” incontri un serial killer? No, è chiaro che non c’entra nulla. Che vinca all’Enalotto? Uh, potrebbe essere, così vediamo se coi soldi vive la vita speciale che desidera o no. Però non è ancora il centro, infatti così non c’è conflitto. Idea, gli faccio vincere per sbaglio un concorso all’anagrafe! Ecco, questo funziona, si sente: un aspirante rocker trova un rarissimo posto fisso, si capisce a naso che questo rimescola le carte nella sua area di pericolo. È fertile.

Così si può partire, si crea l’ostacolo, poi la reazione del personaggio, le altre reazioni che questa mette in moto. Però man mano che si scrive – e si inventa – si tiene sempre presente lo schema, e così il punto di arrivo (il cambiamento) si precisa sempre di più. Ad ogni passaggio si mette un filo più a fuoco, e abbiamo sempre più strumenti per valutare se un determinato Ostacolo o Conflitto è utile ad arrivare a quel punto, o no.

Si procede così, un po’ pianificando e un po’ inventando. Da un lato scegli razionalmente un ostacolo perché è utile a far andare il personaggio nella direzione in cui deve andare. Però la scrittura è invenzione, magari il personaggio ha una reazione imprevista all’ostacolo che hai scelto. Questo ti fa capire qualcosa in più di lui, diventa un pochino più chiaro quale potrebbe essere il cambiamento finale. Quindi hai una bussola un po’ più precisa con cui  scegliere il prossimo ostacolo, eccetera.

Insomma, si dice che gli scrittori si dividano in due categorie: quelli che prima pianificano tutto e poi scrivono, e quelli che al contrario scrivono per farsi sorprendere dai propri personaggi, scoprendo la storia strada facendo.  Il metodo che vi suggerisco io è una via di mezzo. Si pianifica e si inventa in contemporanea, procedendo su due livelli che si aiutano l’un l’altro.

A mio avviso, è comunque meglio iniziare a scrivere la storia quando si ha un barlume di idea dello sviluppo. Poi potrà accadere che i personaggi vi sorprendano e deraglino dal percorso stabilito: benissimo, riaggiusterete la mappa in corso d’opera. Ma partire senza mappa è rischioso, si rischia di finire in direzioni del tutto sbagliate. Come ha detto Cechov: “Nell’opera ci deve essere un’idea chiara, precisa. Lei deve sapere perché scrive, altrimenti, movendo per questo pittoresco cammino senza uno scopo preciso, finirà per smarrirsi e il suo ingegno le sarà fatale”.

Fra l’altro, se non avete esperienza, rischiate che la vostra incertezza su “dove andare a parare” tracimi nello stile. Quando non sapete dove andare a parare, spesso si sente nel tono. E non fa bene, chi segue una storia in genere vuole sentire un narratore autorevole, che sembri padroneggiare la sua storia.

1 commento su “Lezione 6 – Io sono l’ostacolo”

  1. Alla sesta lezione di questo corso di SCRITTURA CREATIVA, mi fido di quello che spieghi con chiarezza estrema e anche simpatica, ma mi rimane un dubbio sciocco: mi domando se tutti i grandi scrittori della storia avevano presenti queste considerazioni teoriche, la consapevolezza di questo meccanismo apparente così semplice per strutturare una trama sensata e finalizzata. Non c’è possibilità che seguissero l’istinto, che avessero incosci tali meccanismi, che strutturasso le loro opere seguendo un metodo differente?
    Oggi, con tutti i libri di scrittura creativa che si possono studiare, con tutti i corsi in presenza e on-line di scrittura creativa che si possono frequentare, tutti imparano le regole di base da applicare…. ma non è che tutti producano capolavori!
    Quindi arrivo alla questione finale: la “tecnica” è così indispensabile? Non basta una corposa ispirazione che generi il nucleo di una storia e l’identità di un personaggio? Non basta aver letto tanto e aver acquisito una naturalezza nello scrivere?

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