Lezioni di talento – B: “Strapparsi dal cuore le proprie sventure”

Il contenuto o la forma?

Per molti aspiranti i corsi di scrittura sono inutili perché hanno un problema alla radice: scrivono di contenuti di cui a loro stessi importa poco.

Sì, lo so che nei salotti fa figo dire che il contenuto è irrilevante e solo la forma conta, o che “non conta ciò di cui si scrive, ma come lo si scrive”.

Sono balle colossali. O meglio: sono affermazioni che forse sono vere, e comunque vanno benissimo per critici, professori, lettori. Il problema è che per chi scrive questi pensieri sono mortali.

Chi scrive deve avere una autentica passione per il contenuto che ha scelto. Solo questo lo spingerà a trovare anche la forma migliore per esprimerlo.

Se non ti importa fino in fondo di quello che scrivi, la forma tende a sfasciarsi e gli errori tecnici proliferano. Il contenuto poco sentito tende a produrre una forma scadente.

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Non è difficile da capire. Solo quando scrivi di contenuti che per te sono essenziali ti viene la volontà profonda di trovare la forma giusta, e magari di imparare anche le tecniche che non sai. Tu credi in quelle cose, e vuoi raccontarle al meglio.

Se non c’è questo movente profondo, e ci si concentra solo sul “come si scrive”, si cade nel formalismo, una ricerca di tecnica astratta e fredda. Tra l’altro inevitabilmente destinata a un pubblico settoriale, fatto di critici, scrittori e aspiranti tali.

È una cosa che si vede anche nella vita quotidiana, basti pensare ai rappresentanti che per vendere devono mostrarsi amichevoli senza provare amicizia: le loro dimostrazioni di simpatia sono verbose, utilizzano termini astratti, fanno ricorso a cliché e luoghi comuni e sono sempre troppo lunghe. Inoltre, sono prive di uno stile personale e sembrano tutte uguali.

Andiamo a guardare le parole sottolineate: sono alcuni tra i “difetti tecnici” più diffusi nei testi degli aspiranti scrittori. Ma quello dei rappresentanti non è un problema “tecnico”: è solo che stanno fingendo, vogliono solo vendere e di noi non gli importa una mazza! Però anche loro sanno fare “dichiarazioni di simpatia” perfette quando giocano coi loro figli o vanno a bere coi vecchi amici.

Per chi scrive è uguale. Non fingete che vi importi di quello che scrivete. Scrivete di qualcosa che vi importa davvero.

Del resto i contenuti sono importanti anche per chi legge. Quando un amico ci consiglia un libro un film non gli chiediamo “che stile ha?”, gli chiediamo “di cosa parla?”. Come bambini che chiedono la favola al nonno, vogliamo sapere il contenuto, non la forma.

Certo, nei salotti citeremo Buffon (non il calciatore, l’altro), col suo classico “lo stile è l’uomo”. Però quando scriviamo è bene ricordare che per noi deve venire prima il contenuto.

Abbiamo necessità di un contenuto che ci entusiasmi, ci ingolosisca, ci dia una frenesia strana come quando siamo innamorati. Allora sarà più facile trovare la tecnica per rappresentarlo. Potremmo anche scoprire che, senza saperlo e senza neanche fare un corso, forse la tecnica la conosciamo già.

Ma qual è il contenuto giusto?

Ovviamente una risposta generale non esiste, ciascuno ha il suo. Intanto possiamo dire però qual è il contenuto sbagliato.

Cosa non scrivere

Non si deve scrivere su qualcosa che crediamo di aver capito meglio, qualcosa che può piacere al pubblico, o che può affascinare i critici. Non bisogna scrivere per seguire le mode del momento, né per combatterle. Non bisogna correre dietro agli argomenti di attualità. Nemmeno esplorare nuovi linguaggi o trattare importanti temi sociali.

Questi sono i mezzi, non i fini. E inseguendo i mezzi è difficile arrivare da qualche parte. A differenza di quella per il Paradiso, la strada per la scrittura è sempre la più dritta.

Ripetiamo le parole di Schrader citate nella lezione 1 (credo): bisogna scrivere su “qualcosa che ci disturba”.

È così semplice. Bisogna mettere le dita sui nostri nervi scoperti e avere il coraggio di entrare nella nostra, personale, “area di pericolo”.

Gomorra è un bellissimo libro, ma non solo perché affronta un tema importante, perché denuncia la camorra, perché svela meccanismi, perché inventa una forma. Questi pregi sono decisivi, ovviamente, ma secondo me sono più effetti che cause. Secondo me, Gomorra è un bellissimo libro perché l’autore ha avuto il coraggio di prendere il toro per le corna: ha affrontato la cosa che lo disturbava di più al mondo e lo ha fatto in modo totale, immergendovisi fino al collo, senza reticenze e paure.

Arriviamo quindi al nocciolo della faccenda, la frasetta da appendere al muro: la capacità di affrontare ciò che ci disturba è uno dei tratti principali del talento.

La buona notizia è che, come tutto, si impara. Alla fine della lezione, vedremo anche come. Non sto scherzando.

Livelli di ingresso

Nella scelta del contenuto la soluzione più immediata è quella che Francis Scott Fitzgerald suggeriva a una studentessa che gli aveva mandato i suoi racconti: “È il tuo cuore che devi vendere, le tue reazioni più viscerali, non le cosucce che appena ti sfiorano (…). E questo è vero soprattutto quando si comincia a scrivere, quando ancora non si sono messi a punto gli stratagemmi per fissare l’interesse della gente sulla pagina, quando non si dispone di quella tecnica che ci vuol tempo per imparare. Quando, in poche parole, si hanno soltanto le proprie emozioni da vendere”.

Fitzgerald si spinge anche più in là: “Lo scrittore inesperto può verificare la sua capacità di trasmettere agli altri i propri sentimenti soltanto grazie a procedimenti radicali ed estremi, come strapparsi dal cuore una prima sventura amorosa e trasferirla sulla pagina scritta”.

Questo esplicito invito alla confessione va preso per quello che è: il consiglio a una giovane scrittrice che aveva dato prova di scarso talento. Per lei, “strapparsi dal cuore una prima sventura amorosa” era una ottima indicazione, una strada “per imparare il talento”. Ma non è l’unica né la migliore. Lo stesso Fitzgerald, in un altro brano, vede i limiti di questo atteggiamento. Infatti parla di quegli scrittori che fanno un buon libro solo perché “avevano la pancia vuota e i nervi a pezzi”, ma poi, “con la pancia piena e i nervi rilassati”, non riescono più a produrre nulla di interessante.

La tecnica strettamente autobiografica, lo “strapparsi dal cuore” le proprie sventure (amorose, professionali, familiari, ecc.) per trasferirle sulla carta, è il primo livello della buona narrativa, nonché la sua fase per così dire giovanile. È un ottimo modo per fare allenamento o per scrivere la prima storia, proprio al massimo la seconda. Poi basta, dopo un po’ è una strada da cui non si cava più nulla, bisogna abbandonarla. Scrivere, alla lunga, significa imparare ad abitare altre vite, non raccontare all’infinito la propria.

La lezione non è finita ma ci sono 30 secondi di pubblicità da parte di chi ha reso possibile questo Corso gratuito: vi prego di aprirla 🙂

OK, SONO SEMPRE IO

Il corso è un regalo, sta qua dal 2009 e non l’ho mai usato per promuovere le mie cose. il-giro-della-verita-fabio-bonifacci
Faccio eccezione per questo romanzo a cui tengo in modo particolare.

Perché è il mio primo vero romanzo, perché sognavo di farlo da quando ero bambino, perché secondo me è  molto bello.

Puoi leggerlo perché ti piace lo stile con cui è scritto il sito.
Per capire se e come le regole del corso funzionano nella pratica di una narrazione. 
Perché frequenti il sito da anni e se ti dico che è bello, ti fidi.
Perché non ti fidi, e vuoi scrivere una stroncatura che sarà pubblicata qua.
Perché il romanzo sinora è piaciuto molto a chi lo ha letto. 

Oppure puoi non leggerlo, io capirò: la vita è breve e i libri sono tanti. Però un po’ mi dispiace.

Qua puoi saperne di più. E grazie per l’attenzione.

Il trapianto emozionale

A un livello più elevato troviamo un metodo che potremmo definire “trapianto emozionale”. Dostoevskij non ha mai ammazzato nessuno, tuttavia Delitto e Castigo è uno dei più straordinari viaggi compiuti dentro la mente di un assassino. Come si sa, è la storia di un giovane che ammazza una vecchia usuraia in totale leggerezza, per rubarle i soldi, poi entra in un lento e agghiacciante processo di “presa di coscienza della colpa” che occupa tutto il romanzo e lo conduce infine al bisogno purificante della confessione e del castigo.

Ma come fa il non-assassino Dostoevskij a raccontarci ciò che accade dentro la mente e i nervi di un giovane assassino? Come fa a raccontarcelo addirittura meglio di quanto facciano oggi i giovani assassini in carne e ossa quando – dopo arresto, condanna, prigione e pentimento – raccontano i loro tormenti ai settimanali o in tivù? Come può, lui che non ha ucciso nessuno, conoscere quelle emozioni meglio di chi le ha provate e di chi le proverà un secolo dopo?

Leggendo le lettere di Dostoevskij si trovano tracce di un suo personale, enorme senso di colpa che riguarda il gioco d’azzardo e i problemi che questo vizio provocava alla sua famiglia. Queste pagine hanno più di qualcosa in comune col senso di colpa provato dal giovane assassino del romanzo, ci sono aggettivi in comune, giri di frase simili. Perché Dostoevskij (almeno secondo me, è la mia idea) ha attinto alla sua emozione personale di colpa, per calarla in un’altra storia e in un altro personaggio.

Questa capacità è talento a un livello più alto. Anziché “strapparsi dal cuore” le proprie emozioni per trasferirle sulla pagina, lo scrittore sa usarle come strumenti per indagare la condizione umana. Usa il proprio senso di colpa, per inventare altri sensi di colpa.

In fondo, dice Simenon, “abbiamo in noi, tutti quanti, tutti gli istinti dell’umanità. Di fronte a qualsiasi evento accada ai nostri personaggi, basta guardarsi dentro e trovare un nocciolo di emozione che abbia a che fare con quella situazione”.

Un nocciolo di emozione dentro di noi…Questa è spesso la base che “odora di verità” e che ci permette di costruire in modo credibile le emozioni di un personaggio diverso da noi.

Basta trovare dentro di sé un’emozione, che ci interessa perché è importante, o che ci incuriosisce perché nella nostra vita non si è sviluppata ed è rimasta inespressa in un angolino. Senza intaccarne la natura viva e sanguinante, bisogna trasferirla in un personaggio e in una storia che a naso capiamo potranno farla crescere: poi la coltiviamo, la annaffiamo, e vediamo dove va.

Avremo costruito una storia, e forse, se ci interessa, capito anche una cosetta in più su noi stessi.

A mio avviso, il “trapianto emozionale” è la chiave con cui raccontare altre vite attraverso noi stessi. Ciò che caratterizza il mestiere di raccontare storie.

Nel mio piccolo, che è molto piccolo, è così che io, maschio bianco di mezza età con una tranquilla vita da papà di provincia, ho potuto scrivere film che parlano di schizofrenici, giovani madri, immigrati egiziani, gay, utopisti anni settanta, ragazze strafottenti, maniaci ossessivi, poliziotti frustrati, politici cinici, baroni universitari, e via dicendo.

E alla fine quasi sempre è pure arrivato qualcuno che si identificava e diceva “Ma quello sono io? Come hai fatto?”. È la magia della scrittura, oltre che la sua vera libidine. Basta non avere paura del proprio mondo emozionale e tuffarcisi ogni tanto: dentro ciascuno di noi c’è tutto.

Esercizi di trapianto

Vi propongo un esercizio di trapianto emozionale. Pensate a un momento in cui avete fatto qualcosa di particolare, un gesto di cui siete fieri, o di cui vi vergognate. Qualcosa che esce comunque dalla routine. Un momento raro che ricordate vividamente. Ritornate a quell’emozione, provate a descriverla su carta, in terza persona, come parlando di qualcun altro. Scrivete 10, 15, 20 righe. Non di più. Non soffermatevi tanto su gesti e parole, descrivete l’emozione.

Ora quell’emozione è davanti a voi, su carta, scritta in terza persona. Se vi provoca fastidio pensare che è vostra, dimenticatelo. È un’emozione scritta su carta. È scrittura e basta. Provate ad inventare un personaggio e una storia partendo da quella emozione (intendo una storia in forma di soggetto, solite 3-5 pagine).

Chiedetevi: Questa emozione in qualche personaggio potrebbe essere il tratto dominante? Quale storia potrebbe stimolarla e farla uscire in modo sempre più forte? Quali ostacoli la trama deve porre al personaggio perché questa emozione si sviluppi?

Provate a vedere che succede. Fatelo quante volte volete.

PS. Al contrario di tutti gli altri esercizi che vi propongo, questo non so se funziona perché non l’ho testato personalmente. Infatti non ho mai fatto esercizi di “trapianto emozionale”, perché è una cosa che mi veniva spontanea. Però non mi pareva un buon motivo per non farlo fare nemmeno a voi.

4 commenti su “Lezioni di talento – B: “Strapparsi dal cuore le proprie sventure””

    • tema affascinante, quello delle vite parallele, di cui una sola ne viviamo realmente. E generalmente, la più noiosa.
      Sliding doors fu una straordinaria intuizione

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  1. Ricordo un evento frustrante e intriso di vergogna, una pubblica accusa in piazza (piazzale). Lacrime trattenute, compostezza, serietà, rabbia, sottomissione, c’era di tutto. Ma era vita vera e come per la maggior parte delle persone “normali” si incassava e si andava avanti. Se fosse stato un film sarebbe stato Full metal jacket o Platoon e a seconda dell’effetto che quella frustrazione avrebbe portato si sarebbe creato un personaggio suicida o un freddo assassino. L’escalation di quelle emozioni non trattenute sarebbe esploso in qualcosa di memorabile, storico, eterno. Di “palla di lardo” ne è pieno il mondo, bisognerebbe anche avere il coraggio di raccontare.

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  2. Ci ho provato, ecco qui:

    La strada era libera, ma l’abbaiare del cane troppo presente nella sua testa, come un tormentoso fischio che impedisce il respiro. Si girò verso l’animale abbaiando a sua volta, incanalando un’ira disperata e sfogandola contro la povera bestia. Le sue urla erano minacce di morte, manifesto desiderio di una ferita apertissima che gridava pietà. Ogni promessa a se stesso, tutti i tempi della serenità e della pace interiore, svaniti. C’era solo il rosso sangue degli occhi e l’odio traboccante, il vendicativo anelito per un torto che forse più che subito, aveva fatto a se stesso. L’amore che aveva nutrito per sette lunghi anni era diventato un bicchiere d’aceto bollente trangugiato in un nonnulla, partoriente duolo, livore e rimorso. Più di ogni altra cosa, era forte l’angoscia provocata dalla coscienza del vuoto sotto i propri piedi. Il gorgo in cui improvvisamente si ritrovava, dopo essersi illuso di essere tornato a volare.

    Il cane indietreggiava, non per paura, ma per compassione, per il malessere e la nausea di vita che odorava dalle viscere di quel povero umano.

    Esercizio di scrittura (con trapianto emozionale):

    Era praticamente fatta, mancava l’ultimo pezzo del puzzle, ma era un dettaglio. Il disegno era nitido, completo, geometrico. Si trattava di una formalità, ma al contempo era la chiave di tutto. Con l’inserimento dell’ultimo tassello avrebbe finalmente comprovato l’esistenza delle particelle WIMP, contribuendo così in modo decisivo alla potenziale prova dell’esistenza della materia oscura. I suoi modelli matematici erano in linea ed erano stati confermati da altri istituti, i macchinari basati su questi modelli erano finalmente arrivati, ora si trattava solamente di fare una prova sperimentale per verificare la sua teoria con le misurazioni. Quel giorno, quel giorno era arrivato.

    Si alzò due ore prima della sveglia, la testa era straripante di pensieri, le era bastato sognare se stessa in un laboratorio per riattivare il cervello. Fattasi la doccia e presasi il caffè, ammazzò il tempo rileggendo i suoi appunti, per poi provare a distrarsi con un libro, di cui lesse dieci pagine senza capirne nulla. La sua mente era già un’ora nel futuro.

    Giulia arrivò per prima al centro di ricerca. Per scaramanzia si era vestita come se fosse un giorno normale, jeans e giacchetta elegante. Il trucco al minimo, come al solito, privilegio delle ragazze acqua e sapone come lei. Una giornata normale: Roberta, come ogni mattina, era arrivata prestissimo e aveva già predisposto il laboratorio, i macchinari e tutto il resto. Il fatto che i preparativi fossero già pronti tranquillizzò non poco Giulia. Come da programma, sebbene Giulia lo avesse pregato di essere puntuale alle 9 in ufficio, Carlo arrivò con calma, una mezzoretta dopo, benché più curato del solito, pronto per il gran giorno. Giulia rispose al buongiorno del collega con uno sguardo cagnesco, l’ansia e il timore cominciavano a tormentarla. Si recò alla sua scrivania cercando di tranquillizzarsi.
    Innanzitutto, non c’era nessuna fretta. Certo, sicuramente altri ricercatori stavano lavorando in quel momento a quello stesso esperimento, ma nessuno aveva ancora ottenuto dei risultati promettenti come i loro e quindi sicuramente nessuno avrebbe fatto la scoperta prima di quel giorno. Importava poco, insomma, che quel pelandrone di Carlo fosse arrivato un po’ dopo. Gli strumenti e i macchinari vari erano stati organizzati da Roberta, quello contava. Ora si trattava soltanto dell’ora X, non c’erano più scusanti, in poche ore sarebbe stata l’ora della verità.

    Giulia ripensò a suo padre, che aveva sì mandato a scuola sia lei che il fratello, ma che non aveva mai davvero creduto in lei. Le spinte, le incitazioni, le ricompense e le imprecazioni, l’orgoglio e la delusione, tutto questo era stato destinato a suo fratello, su cui i suoi genitori sempre avevano riposto le speranze, mai in lei. Quando decise di studiare fisica, le toccò l’indifferenza e lo scetticismo non solo dei genitori, ma di tutta la società. Un campo stradominato da uomini, con poche eccezioni di donne riconosciute per i loro meriti. La Mayer, Rosalind Franklin, Margherita Hack. Giulia si era dovuta fare da sola. L’unica vera compagnia, era la scienza. L’unica grande amica, l’unico amore a non averla mai tradita, era la fisica. Un amore che lei ricambiava con tutto il suo cuore, e che sentiva pieno e persino erotico nel momento della sperimentazione, quando metteva alla prova i suoi pensieri, le sue teorie, e la scienza rispondeva, splendidamente. Non sempre come voleva lei, chiaro, ma rispondeva, le dava un feedback, lei imparava e cresceva. Era una vera storia d’amore, e sentiva che nemmeno oggi l’avrebbe tradita, non dopo tutto quello che avevano passato assieme.

    Ripresa la piena confidenza e più determinata che mai Giulia si alzò, chiamò Roberta e Carlo e disse: “Siete pronti raga? Dai su, iniziamo!”

    Giulia e Roberto stanno dietro all’enorme contenitore di xeno liquido. Giulia ha appena impostato i parametri del giorno prima, quelli decisivi che dovrebbero, secondo i suoi calcoli, determinare la comproprietà delle WIMP e quindi distinguerle dal fondo naturale. Sanno che non vedranno niente, ma che è esattamente in quegli attimi che le particelle WIMP giungono dalla galassia a una velocità di circa due terzi di quella della luce, e che sono esattamente quelle le particelle WIMP, le prime ad essere riconosciute e comprovate da strumentazioni umane. Un passo fondamentale verso la verifica dell’esistenza della materia oscura.

    Roberta riceve i primi risultati. “Giu, ma i parametri li hai impostati, vero?” Un leggero tremolio freddo e acido si arrampica sulla schiena di Giulia. “Certo. Che succede?” “Niente, i risultati sono arrivati, mi sembrano uguali a quelli di ieri… ma magari mi sbaglio.” Giulia cerca di nascondere l’ansia incombente. “Ricordati che si parla di misurazioni minime, ci sta che sembrino uguali al solito a prima vista.”

    “Non può essere…” Pensa Giulia. Riguarda per la millesima volta i dati raccolti la mattina. Li confronta per la centesima volta con quelli del giorno prima. Uguali, nessuna differenza. I parametri impostati da lei non hanno alcuna influenza. Zero correlazione. Rilevanza nulla. Una paura montante provoca un moto di panico in Giulia, la quale in un ultimo disperato tentativo chiede a Roberto di verificare i dati a sua volta. Con tono asciutto, quasi asettico, Giulia dice al collega: “Roberto, sembra che abbiamo fatto cilecca. Ma non possiamo escludere errori da parte mia, anche perché questi risultati vanno contro ogni esperimento che abbiamo fatto finora con successo. Riguarda i dati per piacere, intanto aspetto nel mio ufficio.”

    La laurea, con i sorrisi di mamma e papà che per una volta la guardavano commossi e fieri di lei. La festa di dottorato. Le conferenze, i primi esperimenti. La gioia immensa di vedere le sue intuizioni diventare solide realtà scientifiche. Le routine di lavoro, i premi, le stime dei professori, dei colleghi. Tutto il duro lavoro di dieci lunghi anni di ricerca. E l’immensa voragine del timore dell’inanità del tutto. Non può essere. O si è dimenticata, presa dall’emozione, qualche parametro, qualche variabile, oppure non è riuscita a cogliere i dati decisivi nell’analisi. Roberto è in gamba quanto lui, una verifica a quattr’occhi determinerà una volta e per tutte il valore di tutta una vita.

    Dopo un’ora, ecco Roberto. “Niente da fare Giulia. Ho guardato e riguardato, ho ricontrollato anche gli esperimenti di ieri, ma niente. Mi dispiace.” “Grazie Roberto, chiudi la porta per favore.”

    Il buio, un gorgo immane che la risucchia, la annichilisce, la rende nulla. Tutto inutile. Una vita a comprovare di essere qualcosa che non è. Una speranza, un amore, un’identità intera riposti nella scienza, e tutto questo a pezzi. Un urlo interiore attanaglia Giulia, che vuole disperarsi ma non ci riesce. Vuole sfogarsi ma non ha voce. Vuole spaccare tutto ma non ha forza. È stata tradita dall’unica cosa in cui aveva riposto fiducia. L’ultimo tassello è di un puzzle che si è inventato di sana pianta. Di un sudoku infernale non risolvibile. Giulia vede la sua anima fuoriuscire dal suo corpo, piccola piccola, e la guarda. La sofferenza è esternata in un minuscolo, umbratile criceto che viene schiacciato e soppresso da tutta la forza gravitazionale dell’universo. Un abbraccio caldo la risveglia. Roberta la sta consolando, cerca di tenerla in piedi per non farla affogare nelle sue lacrime.

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