Tavolini

L’intolleranza? Nasce in pizzeria (1991)

Da qualche anno è in corso un fenomeno simile alla deriva dei continenti, altrettanto impercettibile ma altrettanto inesorabile: è la deriva dei tavolini nelle pizzerie. Ve lo giuro, i tavoli si stanno muovendo come i continenti. La differenza è che quelli si allontanano, mentre i tavolini delle pizzerie si muovono l’uno verso l’altro. Ovviamente non è un problema da geologi ma da cassieri: avere tavoli più fitti significa avere più clienti e più incassi.

A lasciare sconcertati è il modo in cui il fenomeno si è verificato. Chi frequenta le pizzerie non si è trovato di fronte una rapida ristrutturazione dello spazio. Tutto è avvenuto di nascosto, in modo misterioso, nel corso degli anni Ottanta. Quella che segue è la ricostruzione più probabile.

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Il gestore vuole aumentare i posti senza che il cliente si trovi improvvisamente in mensa. Siccome crede di essere furbo, sposta i tavolini piano piano, due centimetri la settimana. Dopo due mesi ha ricavato abbastanza spazio e può aggiungere un nuovo tavolo. Poi si ferma per un po’, come i rapinatori dopo un colpo grosso, lascia che si calmino le acque e riparte di nuovo, un centimetro al mese. Il risultato è una deriva inesorabile che, alla fine del decennio, ha trasformato le pizzerie in mangiatoie da allevamento di bovini.

Noi clienti non abbiamo capito, un po’ come mio nonno che chiama “ragazza” mia nonna, perché l’ha vista invecchiare giorno dopo giorno e non si è accorto bene del risultato finale. Ma la deriva dei tavolini ha ormai superato il punto limite, la soglia animale oltre la quale il vicino di tavolo diventa un rompiballe che parla troppo forte o una spia che ficca il naso nelle tue faccende. La consapevolezza non è ancora diffusa, è ferma allo stato inconscio, anche se certi spontanei fenomeni di adattamento, hanno dato lavoro agli antropologi impegnati a studiare la tribù della pizza.

Prendiamo la scelta del tavolo. Un tempo gesto automatico, è oggi un rito delicatissimo. Li vedi, lui e lei, giovani e casual, che arrivano in pizzeria. Hanno voglia di dirsi cose dolci o devono finire un litigio. Dicono al cameriere “siamo in due”. E quello, infingardo, facendo finta di nulla, indica un tavolo incastrato tra una goliardica comitiva di calciatori e una famigliola inebetita e muta che pare non aspetti altro che una coppia vivente da origliare.

A questo punto lui, timidamente, chiede “non potremmo andare lì?”, e indica l’agognata meta: tavolo spalle al muro, coperti sui due lati ad angolo, discrete possibilità di privacy. Il cameriere compiange con un sorriso l’ingenuità della richiesta: “E’ un tavolo da quattro”. Non esiste che l’infingardo rinunci a due coperti.

La coppia sta per cedere quando lei intravede un piccolo gioiello: tavolino biposto riparato da colonna. Il dito indica, gli occhi si illuminano di speranza.

“Prenotato”, risponde con algida freddezza l’infingardo.

Ci vorrebbe la risposta decisa tipo “Tanti saluti. In mensa ci mangiamo già a mezzogiorno”. E invece niente. Quasi tutti siedono mestamente tra calciatori e famigliola, pronti ad amarsi in mondovisione e ascoltare le simpatiche barzellette di uno stopper arrapato.

In questa fase avviene anche un fenomeno insidioso per la già difficile vita di coppia. E’ quello che alcuni studiosi chiamano “la conflittualità della Margherita”. La coppia che era entrata per amarsi, innervosita da tutta quella gente attorno, finisce per litigare. Chi invece era entrato bisticciando, ha trovato il luogo ideale dove lasciarsi per sempre.

Aggiungiamo per inciso che alcuni esperti considerano i litigi da pizzeria il migliore indizio dei rapporti di forza interni alla coppia. Il partner che detiene il potere è facile da riconoscere: è quello che litiga senza curarsi di calciatori e famigliole. L’altro, quello che si guarda intorno sperando che nessuno ascolti e prega con gli occhi di rimandare la discussione in sede più idonea, è il partner delicato, quello che soccombe sempre.

Al di là del fascino antropologico, resta il problema politico: i tavoli dei locali economici si sono avvicinati troppo. Nelle serate di punta mangiar fuori non è una piccola festa ma una lotta per lo spazio vitale. Occorre imparare a ribellarsi. Sviluppare e diffondere una cultura del rifiuto. Il tavolo non rispetta la distanza di sicurezza? E io chiamo il gestore, gli dico che cambio locale, e gli spiego il motivo con massima gentilezza. Più sarete signorili, più il dolore del gestore sarà profondo: scontentare ribelli nervosi gli causa appena un lieve rimpianto, ma perdere “distinta clientela” può gettarlo in un cupo abisso di disperazione. Se sapete fare l’erre moscia, è il momento di usarla.

Va precisato che la distanza dei tavoli nei locali pubblici non è un problema di poco conto. E’ attorno alle piccole tecnologie della socialità che nascono e muoiono i grandi mutamenti sociali. Il collettivismo studentesco anni Settanta è nato in quelle osterie per anziani da poco prezzo, dove non c’erano tavolini ma grande tavolate in cui la gente si sedeva a caso. Morale: si entrava in due e si usciva in otto perché si era diventati amici con quelli a fianco. E’ così che è nato il 68.

Il famigerato ritorno al privato degli anni Ottanta si è incarnato nella realtà soltanto quando i tavolini delle storiche osterie si sono distanziati per lasciare spazio a coppie sofisticate e amici che dovevano discutere business riservati.

Lo spazio dei locali pubblici segue o anticipa la struttura del sentire collettivo. Tavoli affiancati, o tavoli lontani, collettivismo o privato, anni Sessanta o anni Ottanta. Possiamo scegliere quello che ci pare ma, per favore, evitiamo le vie di mezzo. Impediamo che gli anni Novanta siano quelli dei tavoli vicini ma non troppo, tavoli che impediscono sia la privacy che il contatto. Con tavoli del genere, gli anni Novanta saranno il decennio in cui la gente riesce a darsi fastidio senza neanche conoscersi.

1 commento su “Tavolini”

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